Musei comunali di Rimini – Settembre 2025
Jamil Sadegholvaad – Sindaco di Rimini
Michele Lari – Assessore alla Cultura del Comune di Rimini
Secondo la vulgata classica, la pittura nacque ufficialmente quando una mano risalì con un oggetto appuntito il profilo attorno alla sagoma ingombrante proiettata da un uomo su una superficie. Da allora ombra e luce sono stati (sono) i pensieri dominanti dell’arte di ogni tempo, via via evolvendosi da riproduzione fedele del reale a ricerca simbolica e/o metafisica di un altrove.
La pittura di Giorgio Bellini sta in equilibrio sul crinale tra luce (apparentemente tanta) e ombre (che si intravedono a fatica, facendosi largo in un quasi monocromo). E camminando su quello stretto sentiero, l’artista si muove in bilico tra realtà e sogno, tra risultato e promessa, tra libertà e soffocamento. La pittura di Bellini fa dell’impalpabile non solo una tecnica preziosa, ma una misura del mondo. E’ una ricerca costante e ultracinquantennale a trovare il senso delle cose guardando ‘all’aria’ che circonda persone, oggetti e paesaggi. Quasi che il sé possa essere fissato nel rapporto con l’altro che vi entra in stretta relazione. Al di là del chiarismo ‘della natura e dell’anima’ e di quel senso di attesa che cattura il primo sguardo, c’è una profonda ragione sociale nell’opera instancabile e coerente di Giorgio Bellini che può essere individuata nella necessità delle relazioni per andare oltre a luce e ombre, alla mano originaria che per la prima volta seguì il profilo di una sagoma su una parete o un masso. Allora l’impalpabilità diventa sostanza, una roccia spessa e indistruttibile fatta però della materia di cui sono fatti i sogni.
Luca Cesari – Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Urbino
Da sempre o comunque da molti anni seguo la pittura di Giorgio Bellini: il suo bisogno di spazio, di volo, di luce, d’incontro con presenze immateriali che possono essere semplicemente (ma misteriosamente! e grandemente) profili di montagne, paesi o contrade, essenze del vedere e del tacere chiuse nella profondità di un frequente sipario di velature e caligini. Nulla che faccia pensare a una natura simulata ma sempre a forme lievi, eteree, dell’immaginario non materiale; essenze galleggianti nello spazio libero ove si pongono pari a forze dell’aria, condensazioni di vapori, o paesaggi di burro che potrebbero disfarsi proprio come le affascinanti sculture torma dei templi buddisti, esposte al sole. È superfluo sottolineare che questa sua pittura non si confonde con il semplice figurativo, ma in realtà propone a chi guarda una illusione in più, un più remoto universo allo sguardo. In realtà Giorgio dipinge sognando di dipingere come quando era bambino e rincorreva con i gessetti o le matite qualche forma che si prestava alla sua osservazione sciolta, forse allora mimetica, oggi solo meditativa. Chi sogna non sa che cosa sogna e, il più delle volte, non si accorge che sta sognando; così dipinge Bellini anche se lo spunto iniziale può essere offerto da un crinale, da un monte, da un paesaggio vicino, da un volto. In realtà, poiché non ha più l’esigenza di attingere al mondo di fuori come un tempo, si rivolge sostanzialmente a quello di dentro, interno, interiore, in cui trova la materia privilegiata, l’assortimento dei pensieri che nascono dalle letture o dal silenzio del suo piccolo studio: una stanzetta (per il vero poco luminosa) da cui sogna luce, aperture, slarghi immensi, marine, cieli, pescando unicamente nel proprio tesoro intimo che potrebbe esser nascosto anche sotto la stufa di casa propria – come una volta ha scritto Martin Buber in un piccolo grande testo dedicato al “cammino” dell’uomo. Così i dipinti di Giorgio sono sempre più spesso, pensieri. Proprio Marcel Proust osservava che “I musei sono case che ospitano soltanto pensieri”. I suoi quadri sono i suoi pensieri e viceversa. I pensieri non sono volontari, insorgono come soffi di fumo, moti d’aria capricciosa che si condensa e dissolve. Un respiro. Così le immagini dipinte da Giorgio saranno dictée da una fine e affine memoria involontaria. La sua pittura è fluida, quasi discioglie a una presa più fisica e concreta. Palpabile e impalpabile sono tanto vicini da confondersi l’un con l’altro. Ricordo, in
proposito, quel che osservava una grande acquarellista, Bianca Arcangeli – sorella dello storico dell’arte Francesco Arcangeli (buon sangue non mente!) che Benedetti Michelangeli aveva soprannominata ‘la Signorina delle nuvole’, per la leggerezza delle sue trasparentissime immagini – a proposito dei dipinti di Bellini. Osservava, per l’appunto, che questa pittura acquistava in misteriosità dall’affrontare il colore a olio come acquarello, senza allungarlo con il diluente ma come all’infuori del peso e della massa. All’infuori del mondo insomma; e per arduo che possa sembrare circoscrivendo il tangibile e il palpabile staccato in vapore. Benché infatti i soggetti dipinti da questo nostro maestro, legato con tenerezza alla propria terra, elenchino i nomi dei suoi posti, è raro che paesaggi più di questi (si vedi Lassù San Marino, Il Ventena, Oltre Verucchio, Terre di Montescudo, ecc) si pongano a confronto con ciò che si sente più che con ciò che si vede. Anche se a guardarli essi raccontano i confidenti paesi dell’interno vallivo del Montefeltro con cui il pittore è in colloquio da sempre. Ma si tratta ogni volta della ‘risonanza’ poco materiale di un pianeta che dissimula e sfuma la sua fisicità esterna o esteriore. I paesi di Giorgio Bellini son fatti solo d’aria, senza carne e senza ossa; superano il limite della letterale riconoscibilità. Di fatto capovolgono ogni letteralità e ogni paesismo che ha consumato la propria aspirazione a uno sguardo esteriore, bruciandolo al fuoco di qualsiasi figurazione anche nella sua regione. La capovolgono e la compiono perché di quel fuoco restano le braci materiali che si vaporizzano in una forma prossima allo stato insostanziale e volatile. I paesi di Bellini infatti sono pronti a uscire dalle nuvole. Spesso raggiungono movimenti bombati e cromie biscottate, calme imbiancature e azzurri ricchi e sospesi su fortunate smorzature di rosa e cipria sparse lontano e intimamente da curve di pennello fatte tutte a memoria. Talora il potenziale sfruttato è quello di incavature aperte tra colore e non colore nell’atto di trasportare il veduto da cosa compatta a involucro poco avvertito dagli occhi, per conformazione al cielo. In altri ancora vedi ammorbidimenti delle masse in patine che rilucono per effetto di bagnate stesure e copriture, di gradi di colore sottoposti e captati da una reviviscenza di echi dentro di sé che fa pensare al trascolorare nel perlato, nell’opalino, nel vespertino, quando cielo e oltrecielo di uniscono. Sono paesi dunque, pensati col cuore prima che con la vista, elevati ad altri spazi. Dietro di essi c’è tanta poesia letta, assorbita, meditata, tramutata. Poesia di un secolo lungo, plurimo, ma che Bellini trasporta entro la pace dei suoi azzurri affievoliti in favore del minimo e del cosmico pascoliano. Ed ha ragione. Da quando questa pittura si strema così tanto tra il visto e il non visto? Non certamente da sempre; sono trascorse molte stagioni prima che il pittore nato nel ’37 presentasse la sua prima mostra di foschie e controfoschie (apprezzate da tutta la critica) ben oltre vent’anni fa. E sono state intitolate “caligini”. Tutto il mondo tutto il visibile da allora, per Bellini, è entrato nella foschia. Potrebbe essere stata anche una presa di posizione morale, un monito diretto alla tracotanza sventata dell’azione che non conosce limite e misura nell’abusare e nell’esaurire i beni comuni della nostra terra; una partecipazione attiva da parte di Giorgio alla Laudato si’ di papa Francesco, a ciò che essa esigeva ed esige come comportamento. Di certo far calare un velo così fitto e remoto era come immaginare che la natura si fosse fatta d’un tratto ‘gelosa’, gelosa come ‘geloso’ è il Dio dell’Esodo e di Pascal che a un certo punto punisce la tracotanza, la scelleratezza, l’ingratitudine. Ma se si fa tesoro di quel che un antico teologo siro del V-VI secolo – erroneamente scambiato per un allievo di San Paolo – ha voluto significare con la parola “caligine”, intendendola come cortina frapposta al nostro avvicinamento intellettivo al divino, ecco che la nube caliginosa suggerita da Dionigi Areopagita, corrispondente al massimo umanamente ispezionabile della nozione divina, si offre come una chiave per aprire i segreti di Giorgio Bellini. Soprattutto per quella intenzione ultrasensibile mediante la quale il pittore cifra tutto il mondo visibile. La pittura, a un certo punto, per Bellini, ha cominciato a riguardare solo le caligini perché le caligini sono la metafora che si presta a suggerire un guardare oltre e più a fondo. Ma vorrei altresì aggiungere che anche quando la sua pittura non era toccata dalle caligini, ed era lontana da un simile grado di abolizione dell’‘esteriore’, abolizione conseguita per irrorare e imperlare il visibile, essa era pur sempre ricercatrice di “una segreta, instancabile, apparizione” – come recita il titolo di questa nuova mostra presentata da Cristina Acidini che dei miraggi di Bellini è valente critica come valente era stato anche Antonio Paolucci. Che cosa riferisce, del resto, in prima pagina il vangelo della pittura moderna? “La pittura non imita più il visibile” ma “rende visibile”, è “una genesi delle cose”. Genesi, aloni, veli, o sogni di cose, illusioni di cose:
siamo ormai al di fuori di qualsiasi trita alternativa esteriore tra figurato e astratto oltre un secolo come il ’900 che ha annullato il senso dell’alternativa. La capacità dell’arte oggi, fatta con qualsiasi mezzo, è quello di far guardare le cose sotto un altro aspetto – come un celebre filosofo ha detto. Se questo sia figurativo o astratto per noi conta poco purché si operi quel cambiamento indispensabile per rivelarsi come altro, inatteso, novello. Se un artista lo sa mostrare, se un artista sa mostrare questo aspekt, implicando qualcosa che non avevamo ancora notato, questo è tutto quello che dobbiamo chiedere, dato che ogni artista c’insegna a guardare. L’artista ha il potere (se ce l’ha) si spostare l’‘aspetto’. Se riesce a farlo, introducendo un pensiero nuovo tra i miei pensieri, a me basta. Le foschie opaline di Giorgio Bellini che riconducono a vaghezza e sfumatura ogni contorno spostano l’‘aspetto’. Come diceva l’antico? La natura “ama nascondersi”. Solo questo affiorare diverso, nel nascondere, preme a un pittore come Bellini, oltre la zona delle apparenze. Un pittore a propria volta avvolto nella foschia che si consegna col suo
intenso riserbo in questa ‘antologia’. Antologia di decenni e di oggi. Se ne può risalire il decorso avanti e indietro, ma l’aspetto non è mai diverso: ora più ora meno figurativo, almeno nella parte più coerente con la propria intenzione. Siamo entrati così dentro le acque territoriali di Kandinskij. Cosa scriveva il grande russo a proposito di Segantini che sicuramente, ai suoi occhi, tra Bocklin e Rossetti, deteneva i tesori di
mezzo grazie ai quali risultava il più immateriale dei pittori che sono inseriti ancora nel ciclo della materia? Segantini “prendeva forme naturali già fatte, e nonostante la forma apparentemente materiale”, dei tre “cercatori dell’interiore nell’esteriore”, “è interiormente il meno materiale”. Ciò significa che l’ambito dello “Spirituale nell’arte” non è circoscritto alle pratiche astratte o a subordinazioni in chiave di astrazione, possibili-impossibili, di altri generi di pittura. È probabile che questo discorso tocchi assai profondamente il nostro Bellini immerso nell’intimo delle sue osservazioni e dei ricchi pensieri che rafforzano il principio di una pittura che dentro sé stesso ha trovato. Direi dunque che per affinità vicina o lontana che sia alla stella sotto la quale molte personalità hanno camminato verso la terra promessa dell’immateriale e del non visibile, anche l’itinerario di Giorgio Bellini sembra quello di un figlio dello “Spirituale nell’arte”: se a tale formula non diamo una finalizzazione unica ma plurima di stili e di maniere. In questo ‘aspetto’ mi pare riposare il lungo e decantato tempo che ha significato una vita non rumorosa ma eminente di pittore.
C’è una cosa che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova. […] Eppure non cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o nell’altro, di trovare da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo e dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e da nessun’altra parte, che si trova il tesoro.
Cristina Acidini – Presidente dell’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze
Nel suo lungo percorso nell’arte, costellato di appuntamenti impegnativi, Giorgio Bellini continua ad attenersi alla sua cifra stilistica meditativa e pacata, che talvolta si rivolge alla figura privilegiando l’iconografia sacra, talvolta invece, come in questa selezione di quadri, accantona l’elemento umano per dedicarsi in esclusiva alla veduta: paesaggi, case, castelli, con alcuni pochi vegetali a suggerire il lavorio
silenzioso e segreto della vita scorrente nelle linfe di fiori e frutti. Come altrove è occorso di ricordare Giorgio Bellini, pittore e scultore, dal 2017 è Accademico d’Onore dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, la più antica accademia artistica del mondo, che non ha mai sospeso le sue attività dalla
fondazione avvenuta nel 1563, d’iniziativa di Giorgio Vasari con l’assenso del duca Cosimo de’ Medici, nel nome di Michelangelo. E già nel 2015 aveva tenuto una mostra dal titolo L’inestinguibile forza della leggerezza nella sala espositiva della nostra Accademia in via Ricasoli, dove è ritornato nel 2024 con una rassegna dal titolo Una segreta instancabile apparizione sempre negli antichi ambienti dell’ex
Spedale di San Matteo, a fianco dell’Accademia di Belle Arti. Ora dal mese di settembre esporrà una nuova antologia dal titolo, La pittura impalpabile di Giorgio Bellini al Museo della Città di Rimini: la città natale alla quale parte della sua fantasia adriatica e celeste non manca di fare riferimento. Bellini ha esposto in biblioteche e musei in Italia e all’estero, le sue opere sono entrate in raccolte importanti; e la rassegna critica che ha accolto e commentato le sue opere annovera firme di prima grandezza. Ma non ha mai dismesso la sua operosità silenziosa né la sua elegante modestia, cittadino di Corpolò di Rimini e della Romagna circostante e insieme abitante della diffusa e plurale repubblica degli intelletti votati all’espressione artistica, ovunque nel mondo. Si diceva della sua cifra stilistica, perseguita con coerenza. Essa compare se possibile ancor più assottigliata e affinata nella serie delle ultime opere: si tratta di
quell’inconfondibile evanescenza dei paesaggi, i quali, costruiti per masse di campiture morbide e pallide, appaiono – fioriscono, si direbbe – più dalla tela che sulla tela, consentendo sì di riconoscere i luoghi, ma al tempo stesso allontanandoli in un indistinto remoto nel tempo e nello spazio. Di questo straniamento ebbe la percezione Vittorio Sgarbi quando, nel 2006, parlò di uno “di uno svaporamento che trasforma qualunque paesaggio in uno stato di misteriosa sospensione dal tempo, rendendo liquido il solido, incerto il certo, effimero il permanente”. Per la pittura di Bellini si suol ricorrere al paragone con le nebbie, le caligini, i vapori, insomma con fenomeni atmosferici esterni che attenuano la visibilità: ma, da
un diverso punto di vista, potremmo invece vedere in quelle apparizioni di paesaggi e di edifici un processo tutto interno ai luoghi e alle cose, una quieta spoliazione della materia che da compatta e pesante si fa cedevole e leggera, da spigolosa diventa docile, disposta alle carezze dello sguardo e del pennello. Le vedute, o dovremmo forse dire le visioni dipinte da Giorgio Bellini sono altrettante dichiarazioni d’amore per la sua “piccola patria” fatta di borghi apicali e di valli mosse, che egli instancabilmente ritrae per una sorta di risarcimento affettuoso. Ho sempre l’impressione, infatti, che con la sua tavolozza attenuata e soave Bellini intenda lenire le arcaiche violenze inflitte alla sua terra dal travaglio geologico che, milioni di anni fa, estruse al cielo il Monte Titano, modellò i risalti delle rupi, tornì i
pinnacoli e scavò gli anfratti dei calanchi a Brisighella. Ne intuì la raccolta pietas Antonio Paolucci, scrivendo nel 2005: “È una pittura dell’anima quella di Giorgio Bellini, spirituale e raffinata. Va ascoltata in silenzio. Ci si accorgerà allora che, come la conchiglia porta all’orecchio il rumore del mare, così le sue colorate caligini ci fanno intendere il sommesso brusio della Romagna “dolce paese””. Quanto alla neve, presente in tanti quadri, al di là del fenomeno atmosferico essa ha il valore simbolico di un balsamo naturale calato sulle asperità della vita, per il suo potere di smorzare le durezze e di attenuare i colori in un chiarore indistinto; ed è per questo una condizione prediletta da Bellini. Per una sintonia di sensibilità
crepuscolare – e romagnola – non posso non ricordare i versi scanditi con tenera semplicità di una poesia di Giovanni Pascoli “Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca…”. E Bellini è partecipe testimone dell’incanto di una terra, che ha ceduto alla frenesia dell’intrattenimento la pregiata striscia lungo la marina, ma gelosamente protegge il cuore dell’entroterra, ancor oggi integro e silente.